Recensione. Luigi Mascilli Migliorini: Napoleone

Matteo Banzola
7 min readSep 7, 2021

La ricorrenza del bicentenario della morte ha offerto a molti editori di proporre nuovi studi su Napoleone. Salerno Editrice, invece, opta per una nuova edizione, accresciuta e aggiornata della splendida biografia dedicatagli da Luigi Mascilli Migliorini.

La fortuna e il genio

Le persone di talento non hanno molte difficoltà nel trovare la propria strada, e un uomo come Napoleone, che di talenti ne possedeva molti, non avrebbe fatto eccezione. Ma è fuor di dubbio che Napoleone divenne “Napoleone” grazie alla Rivoluzione francese (sulla quale rimando a Jeremy Popkin Un nuovo mondo inizia). Se non vi fosse stata, se l’Ancien régime avesse continuato a vivere, difficilmente il giovane corso avrebbe scalato fino alle vette la carriera militare. Invece la Rivoluzione spalanca le porte a questo umbratile, ambiziosissimo ragazzo che si presenta appena ventenne ad uno degli appuntamenti decisivi della storia.

Fino ad allora Bonaparte è un giovane provinciale per nascita, per cultura e per ambizioni: sogna l’indipendenza della Corsica, la selvaggia isola che gli ha dato i natali. Svanito quel sogno per il passaggio dall’altra parte della barricata della famiglia, Napoleone si trova catapultato in Francia e, quindi, in quel momento, al centro della storia europea.

Napoleone figlio della Rivoluzione o affossatore della Rivoluzione? Per Mascilli Migliorini questa sono domande mal poste e sbagliate. Napoleone è figlio della Rivoluzione in tutto e per tutto; alla Rivoluzione deve tutto, e ne sarà sempre consapevole. Comprende immediatamente la portata storica della Rivoluzione. Si rende conto — per citare il titolo di uno splendido film di Ettore Scola — che dalla Rivoluzione sta nascendo un “mondo nuovo”: l’individuo, la società, il mondo stesso non saranno più gli stessi da quel momento in poi; la Rivoluzione è la madre della modernità, e di questo Napoleone non dubita.

Tuttavia, quel giovane caporale che vedrà schiudersi la sua carriera militare con la guerra del 1792, in quel periodo repubblicano e giacobino, si avvede che il potere politico è incapace di stabilizzare la Rivoluzione. La guerra, del resto, ha accresciuto il potere dei militari, ed è lì che Napoleone vede la soluzione al problema. Pur restando sempre, a suo modo, un “militare repubblicano” o, meglio, un soldato del nuovo regime uscito dal turbine rivoluzionario, egli pensa che i militari possano sobbarcarsi della missione tutta politica di far uscire la Rivoluzione dall’empasse in cui si trova e di darle la stabilità necessaria.

Il punto è che soltanto la pace può chiudere la Rivoluzione, ma proprio per questo è indispensabile che la guerra sia vinta. A partire da questo momento l’A. individua un percorso che prosegue anche con Napoleone imperatore: il modo in cui Napoleone concepisce e conduce la guerra è, a suo modo, il proseguimento della storia della Rivoluzione: anche da imperatore egli continua lo scontro tra il mondo nuovo partorito dalla Rivoluzione e il vecchio mondo delle corti europee.

Trasformazione

L’ipotesi è suggestiva e plausibile: con la campagna d’Italia Napoleone si convince che l’esercito può rivendicare un “protagonismo autonomo” che egli stesso incarna (p. 115) e il suo ministro degli esteri, (il cinico ma dal raro talento politico Tayllerand) si sente in dovere di ricordargli che egli invece è un uomo della Rivoluzione e che le sue vittorie militari appartengono a tutti i francesi e non a lui solo (pp. 126–27). Ammonizione vana quella di Tayellarand perché di fronte alle indecisioni e alle inconcludenze del Consolato Bonaparte decide di mettere in campo proprio il “protagonismo” autonomo dei militari e sciogliere con un taglio netto il nodo irrisolto dell’uscita dalla Rivoluzione con il 18 di Brumaio.

E tuttavia Napoleone è e resta repubblicano. Non solo perché ha difeso la Costituzione dell’anno III, ma perché non militarizza la Francia (anche se questo accadrà in una certa misura molto più tardi, a partire dal 1808) e non pensa e non si muove nel senso di una restaurazione monarchica. Con una soluzione personalissima incanala la Francia verso una “Repubblica plebliscitaria” (p. 173). La definizione di Aulard (così come le osservazioni in proposito di Marx) coglie nel segno perché attraverso il plebiscito Napoleone si legittima dal basso, col consenso popolare, saltando le mediazioni della rappresentanza; così come elemento di consenso popolare è diventato anche l’esercito che si è formato nella Rivoluzione e che naturalmente, in grandissima parte, si riconosce in Bonaparte.

Consenso popolare che però non è sufficiente ad ottenere un’adesione completa della società. Ecco perché viene subito avvertita impellente la necessità di creare una nuova nobiltà, una nobiltà di stato, un’élite repubblicana che si dimostri in grado di assorbire i corpi intermedi dello Stato e, allo stesso tempo, non faccia temere una restaurazione.

Con la creazione dell’Impero il quadro si dilata e si complica perché ora al nuovo imperatore si pone il problema di trovare un modo per integrare forme statali diverse e potenzialmente concorrenti a quella francese e di come federarle. Sono gli stessi fratelli a spiegargli che non possono limitarsi semplicemente a sfruttare i loro regni; hanno comunque degli obblighi verso i loro sudditi e ci sono limiti che non possono oltrepassare (p. 181).

I fratelli fanno riferimento agli effetti controproducenti del blocco continentale imposto nel 1806; ma i problemi che questo suscita sul continente (benché la Francia, almeno per un certo periodo, ne tragga indubbiamente dei benefici), hanno a che vedere non soltanto con le difficoltà di mettere seriamente in crisi l’economia britannica, ma si intrecciano con i fermenti nazionalistici che cominciano a manifestarsi in Italia e nel frammentato mondo tedesco (si vedano, ad esempio, le considerazioni dell’A. a pp. 256 ssgg).

Nemmeno la strepitosa vittoria di Austerlitz, capolavoro indiscusso del genio strategico napoleonico, riuscirà ad appianare le cose. Nello stesso momento, a fare da contrappeso, interviene Trafalgar, segno che l’Inghilterra rimane e rimarrà padrona dei mari e che pertanto non sarà possibile nessuna pace. Non solo la Gran Bretagna resta inattaccabile e mantenendo l’egemonia sui mari costringe Napoleone a tentare di egemonizzare il continente, ma non si rende conto che agli occhi delle monarchie europee la Francia napoleonica rimane comunque un corpo estraneo e che l’Austria non si rassegnerà mai a patteggiare un equilibrio continentale con uno Stato — la Francia — ideologicamente avversa e comunque estranea ai propri valori (pp. 242 e 249).

Restano ancora dieci anni da Austerlitz prima che la vicenda militare e politica di Napoleone si chiuda, ma a ben guardare tutti i nodi che non riuscirà a sciogliere sono già qui. Anzi, da quel momento in poi i nodi cominciano a stringersi. L’invasione della penisola iberica per rendere più efficace il blocco continentale contro la Gran Bretagna, si trasforma ben presto in un ginepraio che lo indebolisce via via (della Spagna, scrive l’A. Napoleone “sembra non capire nulla”, p. 292); l’espansione dell’impero verso est inizia a mostrare ai francesi tutta la brutalità, la ferocia e l’insensatezza della guerra: la lista dei morti, dei feriti e dei mutilati si allunga sempre più. Napoleone continua a vincere, ma le sue vittorie hanno prezzi sempre più alti. In discussione non è il suo formidabile colpo d’occhio e il suo genio militare. Ma man mano che si inoltra verso est, i rifornimenti diventano sempre più difficoltosi e la povertà dei territori non compensa in loco le necessità di eserciti sempre più grandi.

D’altra parte le vittorie militari legittimano il suo potere all’interno, ma non riescono a stabilizzare la situazione europea e a garantire la pace che i francesi aspettano ormai da tantissimo tempo. A nulla vale, in questo senso, anche il matrimonio con la figlia dell’Imperatore d’Austria Maria Luisa, dopo la separazione dall’amata (benché più volte infedele) Giuseppina. Anzi, questo lo conduce alle porte della Russia… cioè della sconfitta decisiva.

Naturalmente, nel frattempo, Napoleone ha realizzato un’infinità di cose che per molti aspetti hanno modernizzato la Francia (ma non in tutti, ci sono anche degli arretramenti) e fatto la fortuna di molti. Ma è proprio la contraddizione del Napoleone guerriero per trovare una pace che gli sfugge sempre un po’ più avanti e lo costringe a nuove guerre per tamponare falle e crepe e per tentare di riacciuffarla che logora il consenso all’interno: “aggiornando a tempo indefinito la pace è assai difficile che il paese prosperi”, nota con acutezza un uomo d’affari (pp. 334–35). In altre parole, depoliticizzando l’amministrazione e la società civile, Napoleone si priva di un appoggio ideologico che gli sarebbe venuto a mancare nell’attacco finale, nel 1814. Nei fatti le élite della società francese si erano lasciate “comprare”, senza mai vendersi… Questo non le fa crescere, lungi dal dovrebbe ; resta il fatto che la sfumatura è significativa, prima della generalizzata “banderuola” del 1814 e del 1815.

Il mito

Si tratta di una fine mesta — anche se in parte meritata — ma mai come le pagine che ci descrivono l’esilio prima all’Elba e poi a Sant’Elena. Ma senza quei due anni finali — il 1814 e il 1815 — Napoleone, benché geniale, sarebbe rimasto un capo di stato, forse più notevole di altri. Invece quella sua tenacia alimentata da una sconfinata ambizione che lo porta a Waterloo a giocarsi il tutto per tutto — perdendo quasi inspiegabilmente una battaglia che gli sembrava vinta — e a perderlo, lo trasforma in mito.

Ma del resto un uomo come Napoleone non può non continuare a dividere i giudizi. Il pregio di questa splendida biografia sta nel fatto che Mascilli Migliorini ha una padronanza stupefacente di una bibliografia sterminata (oltre 170 pagine del libro sono di note a margine), confermata da una scrittura piacevolmente pacata e densa. Chi vuole cominciare a conoscere da vicino Napoleone fa bene a cominciare da questo libro.

(www.lostoricodelladomenica.com)

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